"|RE|SPIRO"

Alcuni eventi del recente passato, apparentemente tra loro non connessi (la pandemia e i casi da George Floyd in poi alla base del movimento Black Lives Matter) hanno indotto una sorta di riflessione su un loro elemento in comune: la presenza/assenza dell’atto della respirazione. Questa funzione, innata, istintiva e alla base dell’esistenza in vita, ben si è evidenziata sia quando questa è stata scientemente impedita da un soggetto terzo, come nel caso degli assassinii ad opera della polizia, sia quando questa è stata l’espressione della potenza distruttrice a scala globale di un morbo che proprio nella privazione della capacità respiratoria degli individui traeva la propria forza devastante. La mostra di Aiello e Atelier Insense (aka Adriano Rosso) nasce dalla contrapposizione simbolica dei due stati respiratori: la presenza e l’assenza del respiro come condizione di vita. Da un lato (Atelier Insense) la dichiarazione esplicita, violenta, di una violenza imposta e subita del respiro che viene a mancare, dall’altro (Sergio Aiello) la percezione di atmosfere velate, che sebbene non rientranti nel figurativo in senso stretto, avvicinano a certi concetti propri di certa arte orientale, dove il non detto è presente e protagonista e regge l’opera nel suo complesso, in virtù di questa sua presenza implicita, ma essenziale. Le opere esposte, nate da percorsi indipendenti dei due artisti, esaltano questa forma di dualismo, sostanzialmente la linea di confine vita/non vita, indipendentemente dalle cause che lo hanno generato, evidenziandone il suo significato più universale e volutamente presentate in mostra in forma contrapposta non per dividere ma per sottolineare l’unicità del tutto tramite le sue parti componenti. Il messaggio lanciato dalla mostra sta nel recupero della consapevolezza della fondamentale importanza dell’istinto di sopravvivenza, manifesto come nell’opera di Atelier Insense o latente sotto traccia con le opere di Sergio Aiello. Negli ultimi due anni molti comportamenti individuali e collettivi sono stati modificati istintivamente o forzatamente dalle situazioni contingenti, alcune scale di priorità, se non di valori, sono state rivedute e corrette ma, nonostante questo, esiste il reale rischio che questo percorso non voluto rischi di essere obliterato nel breve periodo dalla scarsa capacità di memoria storica che ci affligge tutti. In questa dinamica rientra anche la consapevolezza del non posso respirare e del sono vivo poiché respiro Chi, come, cosa, quando, dove questa linea di confine verrà nuovamente oltrepassata? Come riusciremo a renderci conto che ci staremo pericolosamente avvicinando ad essa? Quali saranno le strategie che adotteremo per ritornare in condizioni di sicurezza o constateremo indifesi la condizione per cui I can’t breathe?

Daniele D’Antonio, 2021


"PARA//EL"

Sintesi e scomposizione in elementi essenziali si ritrovano nelle tele di Sergio Aiello, la cui ricerca si concentra sull’astrazione del paesaggio. Nel progetto "So_close_So_far" si inserisce "Tempo presente", una riflessione visiva monocroma nel “bianco più bianco” sulle dimensioni spaziali e temporali contemporanee, sempre parallele, indefinite e quanto mai attuali. Con Paesaggi complementari l’artista rende percepibile l’orizzonte senza fine, sdoppiando la prospettiva agli estremi dello spazio-tela. È un cambio di visione che permette di essere consapevoli dell’infinito, senza dar però certezze in merito: ciò che si vede, infatti, non sempre si capisce pienamente. L’infinito, dunque, concetto che rimane inspiegabile nella sua completezza, diventa un interessante mezzo per confermare la nostra finitezza.

Nadine Bajek


"METAMORFO"

..in questi quadri sono escluse le policromie che si rivelano oggi nella sua ultima pittura. Anche le forme, finora con motivo prevalente di fasce pressochè regolari di bianco e nero che con la loro orizzontalità reiterata identificano un preciso orizzonte, mutano verso lo sciogliersi dolce dei contorni, come se la rigorosa ricerca artistica abbia trovato uno snodo, ed in qualche modo aleggi nelle più recenti opere una spiritualità meno severa, più mite e forse più indulgente. Che cosa è successo? Il rigore del flusso incanalato in fasce, quasi una partizione architettonica della tela, con il suo non so che di certezze, adesso s'è sparso in nuovi equilibri: la forza che appariva univoca nella spinta rigorosa si frammenta in componenti che si intrecciano e danno all'opera un piacevole dinamismo. C'è una forza che tiene ai bordi i colori che premono e c'è la forza contraria che preme perchè i colori invadano tutta la campitura. Non c'è caso e non è caos, è l'arricchimento del linguaggio artistico con ulteriori espressività in grado, come Sergio ha sempre voluto nella sua traiettoria, di attivare tra i fruitori e l'artefice una discussione su di una progredita proposta. Un altro topos di Sergio, le file di piccoli quadri tutti delle stesse dimensioni, che a me hanno sempre suggerito fotogrammi, fotografie istantanee, istanti del più o meno esteso lungometraggio che è il passare del tempo, vengono coinvolte anch'esse in una nuova espressività. Il semplice e comunemente accettato modo di trascorrere del tempo forse si è rivelato non più in grado di contenere le esperienze ispiratrici. Forse troppo lontane e confuse al ricordare si troveranno le immagini che non si vogliono perdere, le esperienze che non si vogliono dimenticare. E quindi non è più sufficiente una disponibilità del tempo così come usata finora di flusso continuo, che rassicura in direzione e soprattutto verso, come un placido fiume che trascorre l'ubertosa pianura dall'Alpe al Mare...... Si avverte che il flusso del fiume, il tempo di ogni vita, trova un'ansa oltre la quale non riprende il moto atteso, ma ritorna indietro: si assiste al nostos di una massa d'acqua (e di istanti) che si contorce, preme, comprime uno spazio sconosciuto alla ricerca in qualche modo di quel che sarà in ciò che è stato

Ivano Bardini


"M' ILLUMINO D' IMMENSO"

Di solito quando mi appresto a scrivere un testo critico sono sempre circondato di libri, riviste e quant'altro potesse influenzare creativamente il mio scritto. Quando Sergio mi ha chiesto di scrivere per lui questo non è capitato. La ragione è una. Il suo lavoro mi attrae. Mi appassiona. Come la sua persona la sua pittura è travolgente, è reale. Non è la solita fuffa ma "solida realtà". Qualcuno lo definisce un paesaggista per me è un poeta. Nella fattispecie mi ricorda Ungaretti. Sibillino ma esaustivo. Scarno e allo stesso tempo ridondante. Al di là del gesto tecnico(sopraffino e magistrale) al di là dei colori "piacioni" (per me afrodisiaci) i suoi lavori sono un"m'illumino d'immenso". Nel loro minimalismo pittorico si cela un mondo da scoprire. Un mondo che a me ricorda l'infanzia a Forlì. Un universo territoriale, quello, fatto di calanchi. Il bianco calcareo che fa l'amore col cielo blu agostano. Nei suoi quadri io mi immergo senza prendere fiato perchè morirci dentro sarebbe un bel morire. In uno sguardo al cielo potrei respirare l'immortalità che tutti noi vorremmo e un artista ancor di più. I quadri di Sergio al di là dei colpi di spatola, le sovrapposizioni di materiale, al di là di qualsiasi atavica memoria ti fanno star bene. Per vivere un suo quadro devi sfiorarlo devi annusarlo e poi per chiudere in bellezza potresti appoggiarci su un orecchio ed ascoltare il cicalio della sua terra o quella voce che maternamente ti invita a stare tranquillo. Illuminarsi d'infinito non è impossibile. Basta crederci ed avere la fortuna di incontrare colui al quale è stato dato un dono: quello di farti vivere delle emozioni che oggi rischiamo di non saper più vivere.

Claudio Lorenzoni



"PITTURA DI PAESAGGIO"

Si è perso molto tempo a discutere sull’effettiva contemporaneità della pittura: è ancora “lecita”, nel solco della tradizione, o è anacronistica? Cosa spinga un artista in questo scorcio del terzo millennio ad esprimersi (ancora) con la pittura e, fatto più raro, con la pittura di paesaggio,  è uno dei tanti fenomeni che affollano il mondo dell’arte contemporanea, che senza batter ciglio riesce a spaziare dall’ algore più profondo di un  “white cube” – che si presenti come oggetto artistico o spazio espositivo non importa, sempre di ghiaccio rimane –fino al quadro dipinto e  debitamente incorniciato da appendere in quello che un tempo si definiva il salotto buono. Sergio Aiello è pittore ormai esperto, alle spalle quella  scuola, gavetta era chiamata un secolo fa, che non solo insegnava le basi indispensabili per poter esercitare un “mestiere” … «Mentre si dipinge un quadro, contemporaneamente lo si distrugge», affermava Giovanni Frangi, cui d’impulso ho accostato Sergio Aiello quando ho  visto la prima volta i suoi paesaggi – non pensando a Turner, che egli stesso mi confida essere il suo ideale, ma Turner i colori li fondeva  (“utque erat et tellus illic et pontus et aer” cantava Ovidio), Aiello li sovrappone: è la differenza tra una salsa e una pietanza, Turner è  un menu squisito composto soltanto di salse, superbamente irreale, improponibile, un’eccezione meravigliosa che ha saputo inventare solo lui –,  perché non ostenta il mero dato documentario, e nell’immagine che crea sa trasmettere un senso di lontananza e di perdita. I suoi quadri diventano  così puri desideri d’orizzonte, “accampamenti possibili dentro l’infinito” (Luigi Meneghelli). Negli ultimi lavori, presentati in questa mostra, ci  troviamo di fronte a paesaggi che, nonostante l’artista prenda programmaticamente le mosse dalla realtà, evitano la riproduzione descrittiva della natura.  Con un ritmo cromatico segnato da azzurri, terre arse ed uste, tracce di minio ardenti tra carboni polverosi, si susseguono le viste delle marine, spesso  innervate da colature trasversali di smalti virginei. Terra e acqua si toccano e si scontrano, si abbracciano e si intrecciano. Lo spazio reale e l’immaginesi susseguono tela dopo tela senza incrinature, dissolvendo nello spazio i dettagli realistici in zone di colore omogenee. Aiello agisce in maniera sintetica isolando coloristicamente i soggetti dal contesto ( il soggetto sembra infatti ormai essere diventato, al limite della rilevanza, concettualmente fluido e scarso portatore d’interesse se non per le sue possibili potenzialità manipolatorie ) , mentre il disegno, la “forma mentis” che ha progettato la scena, serveormai soltanto a definire le linee di forza dentro cui si srotolano gli elementi principali della composizione. Procede per sintesi, per concentrazione, strato dopo strato, addensando al nucleo, amalgamando ai margini, diluendo ai confini, cercando la dissoluzione, rincorrendo l’anima della figura (di una pedissequa imitazione) ormai scomparsa nell’orizzonte, sublimata in nome di una prospettiva più ampia in cui è volata per rifugiarvisi dopo essere stata scacciata dalla scena. Sono le macchie di colore che disegnano il suo paesaggio, mescolate, sovrapposte, graffiate: materia spalmata densa su una tela che riluce diversa, estranea, abbagliante e intimidatoria, che incarna gli esiti stilistici dell’artista portandone all’estremo la grammatica pittorica. La pittura rimane così in uno stadio dove l’immagine, ancora riconoscibile, è irrimediabilmente trasformata, addirittura sfaldata, in una visione personale e lirica, nell’intenzione di far trasparire una sensazione luminosa, un’allusione formale. Sulla tela riemerge l’atmosfera di un paesaggio reale che, in chi guarda, penetra e risuona a fondo e in cui si può rituffare con maggior vigore ritrovandone quella stessa realtà da cui il pittore pareva averlo allontanato. Nell’eliminazione dei dettagli, nella pressoché totale assenza di descrizione e di narrazione, la mostra pare così indicare la tendenza verso una totale autonomia della ricerca di Aiello, parallela e perciò staccata da quel fluire continuo di immagini che è la realtà. Alla copia mimetica o alla sua reinterpretazione figurativa l’artista contrappone una forza gestuale in grado di condurlo verso una totale indipendenza della (sua) pittura da qualsiasi squarcio di mondo, visto o preesistente. Sta proprio qui la sua liceità di esistere come pittore e come pittore di paesaggio anche alle soglie del terzo millennio, nel pieno e pressoché totale predominio globalizzante dell’Arte Contemporanea.

Gianfranco Schialvino